Lui è nato e cresciuto a Torino. E’ un gianduiotto, praticamente. Io vivo a Milano da quando ho sei anni. Mi scorre il panettone nelle vene.
Per qualche anno abbiamo portato avanti una relazione a distanza. Poi è arrivato il momento in cui abbiamo deciso che, se volevamo continuare quella comunione di amorosi intenti, uno dei due doveva trasferirsi. Per un periodo ciascuno ha portato l’acqua al proprio mulino, ognuno ha perorato la causa della propria città, in una sfida campanilistica senza esclusione di colpi.
“Vuoi mettere centotrentacinque suggestive guglie gotiche contro quel solo misero spuntone?” lo provocavo mettendo a confronto i monumenti simbolo delle due città.
“Cosa sono quei canaletti putridi e marcescenti al cospetto della maestosità del Po? Mi chiedeva lui alludendo ai miei amati Navigli.
“Noi abbiamo lo skyline di Porta Nuova, la nostra piccola Manahattan, con i grattacieli più alti d’Italia, quindi ce l’abbiamo più lungo.” Replicavo piccata, come se avessi la disponibilità di un appartamento nel Bosco Verticale.
“Ma perché a Milano ad ogni incrocio le strade cambiano nome?” Mi chiedeva disgustato il Torinese come se avesse visto un ragno spiaccicato sul muro. “In effetti”, replicavo sarcastica, “come si fa ad abbandonare una città nella quale le strade mantengono inalterato il proprio nome anche dopo aver intersecato svariati crocevia?”.
Tutt’oggi ogni volta che saliamo in macchina impreca contro la viabilità milanese. Lui ha in testa i suoi vialoni torinesi, con andamento tra di loro invariabilmente parallelo o perpendicolare. Vive ogni strada bisettrice come un affronto al proprio ordine mentale a pianta quadrata, come la mappa di Torino.
Qui invece abbiamo le circonvallazioni, quella interna e quella esterna, la circonvalla la chiamano i milanesi, da sempre orientati ad un andamento circolare. A Torino se giri a destra quattro volte di fila ti ritrovi al punto di partenza, se lo fai a Milano dal centro ti ritrovi a Cernusco sul Naviglio senza passare dal via.
Io per la cronaca sono riuscita a perdermi anche a Torino, ma ho il senso dell’orientamento di un lombrico.
La prima volta che l’ho vista ho pensato che fosse triste, non decadente, ma sotto tono. Ed è strano perché è una città austera ed elegante. Poi ho cambiato idea. Sto per farvi una rivelazione, ma dovete giurare che resterà un nostro segreto, che non lo rivelerete mai al Torinese. Dal punto di vista estetico è più bella di Milano. E’ stata capitale d’Italia e si vede, l’architettura è molto più uniforme di quella meneghina, mi ricorda una piccola Parigi, con gli abbaini, le piazzette, i vialoni e il fiume. E poi ci sono le montagne e la collina a farle da cornice.
Non so cosa mi ha fatto cambiare idea. Forse l’ho presa in simpatia. Per certi versi è più democratica di Milano. Porta Palazzo è un quartiere del centro, quello dello storico mercato, ed è popolato per lo più da stranieri. Qui da noi li releghiamo in periferia.
Eppure mi è rimasta l’impressione che sia vuota. A Milano hai quella sensazione per cui sembra sempre che ci sia qualcosa che bolle in pentola, che ci sia movimento. Sarà la settimana della moda o quella del design, sarà la fiera dell’artigianato o il Fuorisalone, sarà che sono sempre tutti affaccendati. Sarà che ha una naturale vocazione all’internazionalità, che è una città che guarda in Europa. Ma hai sempre il sentore di essere al centro degli eventi.
I milanesi invece faccio fatica a descriverli probabilmente per lo stesso motivo per cui sento l’inflessione torinese nella parlata del mio compagno e non quella milanese nella mia o forse perché incontrare un milanese d.o.c. in città è un evento più raro dell’avvistamento del cervo muschiato nelle foreste della Manciuria.
A differenza del baùscia che in città è un esemplare piuttosto diffuso. Intimamente convinto che apparire sia più importante che essere, ostenta e millanta come se non ci fosse un domani.
I torinesi invece tendono all’essenziale. Adesso che ne ho uno che mi si aggira per casa posso dire la mia. Pochi orpelli, pochi giri di parole. Mantengono il profilo basso e uno snobismo che vira all’understatement, ma sono più alternativi dei milanesi, dispongono di una sottocultura undergruond più ricca della nostra. Qui invece siamo più conformisti, più impegnati ad interpretare i nostri ruoli.
Alla fine si è trasferito a Milano, come il salone del libro. Hanno deciso questioni pragmatiche, più che estetiche. Il lavoro è stato l’ago della bilancia della nostra scelta. In altre parole la sfida l’ho vinta io.
Eppure adesso che a Torino non ci torniamo quasi più, confesso che un po’ mi manca. Quando la vedo in tv, sussulto come se fosse un po’ anche mia. Mi piaceva prendere l’aperitivo al Pastis, passeggiare in via Pietro Micca e guardare i banchetti di libri antichi sotto i portici del centro. Mi piaceva pedalare sulle rive del Po e aggirarmi tra le bancarelle di Porta Palazzo.
Sì Torino un po’ mi manca, ho la nostalgia sabauda, che ti prende proprio quando non vuoi. Voi però non lo dite al Torinese.
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