Che sono nata e in parte cresciuta in un paesino dell’Oltrepo’ pavese, se seguite il blog, lo sapete già. Quello che non conoscete sono i dettagli dello sradicamento. Per darvi un’idea, seppur vaga: Heidi a Francoforte. Al posto della montagna la collina, invece di Peter due cuginetti, anziché il nonno alto e barbuto, quello piccolo e rasato.
Quando sei bambino, le differenze stanno tutte nei dettagli. E allora per me la città era un rumore di passi notturno, che in campagna la notte è solo delle cicale, era una luce da fuori che illumina una stanza buia, che in collina il buio è interrotto solo dalle lucciole, ma soprattutto la differenza stava tutta in quell’aggettivo possessivo che usavo con mia madre: “casa mia ha un piano solo” e “la tua è altissima”, “il tuo frigorifero è rosso, il mio è bianco”, “la porta di casa tua è sempre chiusa, quella di casa mia no”.
Per una bambina di sei anni le differenze tra un paesino di campagna e una grande città è quella che c’è tra una porta sempre aperta e una sempre chiusa a chiave, che per un confronto più impegnativo ci vogliono strumenti più affilati e una capacità critica adulta.
Ma i bambini, si sa, hanno mille risorse e a me venne in soccorso una fantasia molto fervida. Per sovrastare quel rumore notturno mi ero inventata un’amica con cui parlare prima di addormentarmi e per non sentire la mancanza dei prati ne avevo immaginato uno nel giardino condominiale.
Tra l’altro sono stata fortunata: in città di signorine Rottermeier non ne ho incontrata nemmeno una. Quanto meno da bambina.
Poi con il tempo le differenze sono diventate meno evidenti, la città meno spaventosa.
Di quel passaggio è rimasta solo una lieve diffidenza nei confronti del cambiamento. Un sospetto di fondo che in cambio di una porta sempre aperta ti possano rifilare un portone chiuso. Perché l’infanzia segna il solco e lascia il segno (però puoi sempre fare un blog che si chiama cambiopasso e esorcizzi la paura).
Adesso che sono grande in città sono a mio agio. Ho imparato che è come un’aspirapolvere per trarne vantaggio devi saperla usare, che non basta stare fermi ad ammirarla.
La verità è che la città non la lascerei, ma le mie radici sono altrove. E non è perché sono l’unica in casa che non urla quando vede un ragno sul muro. C’è molto di più ed è qualcosa che ha a che fare con le origini. Tra l’altro mi piace dire che ho un’anima campagnola. Che forse non evoca nobiltà di lignaggio, ma dà senso di appartenenza.
Così questo week end sono tornata, dopo mesi di esilio forzato, sulle mie colline. Ho rivisto il borgo natio, con i campanili, il torrente, il centro storico con i portici.
Ho passeggiato con i bambini nelle vie della mia infanzia dove i miei ricordi sono sparsi ovunque come tappe di una caccia al tesoro a cui gioco in silenzio ogni volta che torno.
Ho rivisto le amiche di sempre, quelle che anche se adesso sono donne adulte e mamme premurose, le vedo sempre un po’ bambine con il moccolo al naso e le ginocchia sbucciate.
Ho ritrovato quei volti noti, di cui non conosco il nome e neppure la storia, ma che mi sono familiari e che ho visto invecchiare.
Anche se non tornerei a viverci anche se adesso il mio percorso è altrove, sapevo di essere tornata a casa. “Lo sa perché mangio solo radici? dice la suora della Grande Bellezza nell’unica frase che pronuncia in tutto il film “perché le radici sono importanti”.
Io credo che per trovare una propria identità nel mondo, per mettere le ali e spiccare il volo, sia fondamentale conoscere e riconoscere da dove veniamo. Che i rami andranno tanto più in altro quanto più forti saranno le radici dell’albero. Questo vale per la famiglia d’origine, l’infanzia, ma anche per il luoghi da cui proveniamo.
Io credo anche che se durante il percorso mi dovessi perdere è da qui che inizierò a ritrovarmi. Perché ovunque vada nel mondo ho un’etichetta che mi pende dalla manica sinistra della maglia. C’è scritto MADE IN OLTREPO’.
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