Quando ero single il risveglio infrasettimanale era un momento della giornata se non piacevole, tutto sommato abbordabile. La sveglia suonava alle 8.00 e io avevo il tempo di stare ancora cinque minuti sotto le lenzuola a godermi il tepore soffice del letto e ad allenare gli occhi alla luce del giorno.
Poi mi infilavo sotto la doccia e lasciavo scorrere a lungo l’acqua sulla pelle per un massaggio caldo, volto a restituirmi lentamente al mondo. Nel contempo il profumo del caffè appena pronto riempiva l’aria e io facevo colazione con calma mentre ascoltavo la musica o il notiziario alla radio.
In questo quadretto zen, riuscivo persino a farmi una piega sommaria ai capelli e a scegliere con cura l’abbigliamento della giornata, arrivando addirittura ad abbinare la maglia alla gonna. Quindi arrivavo in ufficio profumata come una rosa, sfoggiando una “cofana” che neanche Anne Winterthur alle sfilate milanesi.
Poi sono nati i miei figli e ora il suono della sveglia mi fa sussultare come fosse scattato l’allarme antincendio nella mia casetta di paglia. Perché ormai i miei risvegli hanno i minuti contati.
Io mi occupo di preparare i bambini, dato che il Torinese è un uomo, e riesce a malapena a preparare se stesso.
Di solito il risveglio del piccolo va liscio come l’olio, ma sbrandare la grande è sempre un’operazione che richiede la tenacia di un maratoneta olimpionico. Perché alle 7 e 15 del mattino, Bibì sembra appena entrata in fase REM, dorme il sonno dei giusti, secca come un fico.
Provo a svegliarla con una scarica di bacini sul viso, ma lei si limita a voltarsi dall’altra parte. Allora tiro su la tapparella e la chiamo a voce alta. Lei cambia posizione e si gira a pancia in giù. A quel punto non mi resta che passare alle maniere forti: la sollevo di peso e la poso a terra. Lei inizia a camminare a occhi chiusi, come un sonnambulo nel cuore della notte. Per evitarle un frontale contro un muro, devo accompagnarla per mano in cucina, dove finalmente, nuntio vobis gaudium magnum: Bibì apre gli occhi.
A questo punto i bambini dovrebbero iniziare a fare colazione, ma è solo dopo il decimo sollecito che il primo biscotto fa il suo ingresso nel latte. Affinchè finiscano il pasto mattutino li devo incalzare di continuo: “dai!” “su!” “forza!” “veloce!”. Più che una mamma in ritardo, sembro un’appassionata cheerleder che fa il tifo per sua squadra del cuore, mi mancano solo i pon pon.
Infine inizio a vestirli.
La grande invece di prepararsi per andare all’asilo, sembra debba scegliere l’abito per ricevere la statuina dorata alla cerimonia degli Oscar. Snobba legging e pantaloni e pretende gonne e vestitini. Il massimo del confort, insomma, per una giornata da passare tra giochi di gruppo e capriole. Ma ogni mio tentativo di dissuasione viene colto come un affronto insanabile al suo look da fashion victim in erba.
Ed è così che l’aspirante Ferragni inizia il valzer dei capricci.
Il piccolo invece crede che voglia giocare. Provo ad infilargli la maglia e lui scappa via per farsi rincorrere, cerco di chiudergli i pantaloni e si nasconde sotto il letto, faccio per mettergli i calzini e lui mi lancia una palla che mi colpisce in testa.
Ed è così che una mamma esasperata inizia la sinfonia delle urla.
Poi è finalmente giunto il mio turno di prepararmi, ma ormai è ora di andare. Quindi pesco a caso dall’armadio, per riemergere abbigliata con un’improbabile accostamento di colori e indumenti. Il risultato è che esco di casa con una mise da fare invidia a Lady Gaga.
Ma non è ancora finita.
Quando arriviamo all’asilo, nei giorni di mammite acuta, il piccolo si nasconde dietro alle mie gambe a cui si attacca come una ventosa ad un vetro. Staccare la cozza richiede l’intervento di almeno un paio di maestre. Sono sulla porta e lui grida mamma con lo stesso pathos con cui Rocky Balboa chiamava Adriana dopo l’incontro con Apollo Creed, ma un po’ più forte, tanto per farmi andare al lavoro nutrendo il forte sospetto di essere una mamma di merda. Poi, mi dicono, smette.
A quel punto inforco la vettura e mi fiondo nel traffico milanese. Arrivo in ufficio con la faccia di un reduce di guerra, vestita come mia figlia abbiglia le barbie (e vi assicuro che non ha un minimo di senso del decoro) e con i capelli a carciofo.
L’espressione però è sorridente e serena: finalmente mi posso riposare.
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