Quand’ero bambina, le vacanze in famiglia le ho sempre trascorse al mare.
Ricordo che i miei mi svegliavano nel cuore della notte e partivamo in auto per la Versilia. Ero emozionatissima e per tutto il viaggio non chiudevo occhio. Mi incantavano le gallerie, i tornanti, gli autogrill ma soprattutto quello spicchio di azzurro che all’improvviso scintillava dietro a una curva come un vassoio d’argento.
Alloggiavamo in un albergo sul lungo mare, bastava attraversare la strada per andare in spiaggia. Ma non era quello l’unico vantaggio del nostro ricovero marino. Mio padre sostiene che facessero il miglior Caciucco alla livornese di tutta la Toscana. Per noi bambini, invece il valore aggiunto era dato dal tavolo da ping pong sotto il salice e dalle lucciole in giardino.
I miei affittavano sdraio e ombrellone nello stabilimento di fronte all’albergo. Adoravo sentire la sabbia sotto i piedi, cercare conchiglie e costruire castelli. Mi piaceva l’odore delle creme solari, il sole sulla pelle nuda e stare accanto a mio padre mentre scavava gallerie nella sabbia per farci giocare con le biglie.
C’era una sola cosa che odiavo con tutta me stessa. Era il mare.
Non lo avrei ammesso con nessuno, ma il vero motivo per cui provavo nei suoi confronti un sentimento così forte era che mi faceva una paura folle. Per me era troppo. Troppo grande, troppo blu, troppo profondo. Perfino troppo salato.
Finchè era una macchia azzurra in lontananza mi attraeva, mi sembrava di sentirne il richiamo, ma quando era tanto vicino da potermici immergere, mi terrorizzava. Ricordo i tentativi della mia famiglia di convincermi a fare il bagno. Dalle lusinghe alle minacce ogni loro sforzo cadeva nel vuoto. Il bagnasciuga restava per me una frontiera invalicabile, la cortina di ferro oltre la quale sentivo che non mi sarei mai avventurata.
Una sola volta mio zio riuscì a portarmi al largo. Resta una fotografia sovraesposta a testimoniare quel momento. Si vedono un salvagente bianco e arancione, un paio di baffi dalla foggia anni ’70, e una bimba con in volto un’espressione che è la rappresentazione fotografica dell’urlo di Munch.
Per trovare nel mio album di fotografie un’immagine di me in acqua con il volto rilassato, se non addirittura sorridente, bisogna sfogliare le pagine avanzando nel tempo.
Erano gli anni dell’università. Partivo in nave con le amiche per una semisconosciuta isola greca della quale ricordavamo a malapena il nome. Avevamo lo zaino in spalla e in tasca un biglietto per il passaggio ponte. Non amavamo sostare sottocoperta, ci sistemavamo all’esterno, sul ponte, per guardare le stelle e sentire tra i capelli le sferzate del vento.
Giungevamo sporche e stravolte in un campeggio fricchettone dove il nostro rifugio era un minuscolo bungalow arredato con un letto a castello e un lavandino microscopico. Non ci stava null’altro. Posavamo il bagaglio e correvamo in spiaggia a fare il bagno, indovinando la direzione dall’odore del mare.
Di giorno prendevamo il sole sul bagnasciuga come sirene spiaggiate oppure giocavamo in acqua con i ragazzi a rubarci la palla per avere il pretesto di toccarci senza dover rivelare intenzioni o fingere pudori.
Ma a vent’anni il mare è anche quello di notte. Ricordo una serata d’agosto con un ragazzo toscano, la sua “c” aspirata e un tatuaggio a forma di drago sul polpaccio sinistro. Facevamo a gara a chi vedeva più stelle cadenti, poi una di loro ha realizzato il mio desiderio più ardito e ci siamo tuffati nel mare di mezzanotte.
E così alla fine siamo diventati grandi amici, io e il mare.
In mezzo c’è stato un corso di nuoto, la presa di coraggio di fare un tuffo e l’azzardo di una ragazzina spaventata di buttarsi nel mare.
Ed è forse per questo che, quando qualcosa mi fa paura, io ripenso a quella bambina piccola che si sentiva perduta e indifesa di fronte a un mistero troppo grande e profondo. Che preferiva stare sulla spiaggia, come una spettatrice incantata perchè quel tuffo era un lancio nel vuoto che la terrorizzava.
E penso che se non avesse avuto l’ardire di vincerla, quella paura, avrebbe continuato a guardare il mare dalla spiaggia, perdendosi il brivido che ti arriva sulla pelle quando ti butti nell’oceano o la carezza delle onde quando la sua superficie s’increspa. Si sarebbe persa il tuffo da una barca di pescatori al largo di Lipari, una gita in motoscafo verso una laguna sarda, e forse anche i baci di un ragazzo con un tatuaggio a forma di drago, sotto il cielo stellato di una sperduta isola greca.
Perchè facciamo così, ci nascondiamo dietro le nostre inquietudini e ci perdiamo la parte più bella della vita, quella più avventurosa ed emozionante, senza accorgerci che spesso, quello che separa una grande paura da una grande passione è solo il coraggio di fare un salto e provare a nuotare.
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