Mi ero preparata alla ripresa. Avevo sistemato la camera dei bambini, svuotato gli scaffali dai giocattoli per far posto ai libri, cercato una soluzione per sostituire il lettino con le sbarre con un giaciglio più grande. Avevo iscritto i bimbi ai corsi sportivi: nuoto per il piccolo, danza per la grande, appuntato in agenda gli impegni di lavoro, le visite mediche, i colloqui con le maestre.
Ero pronta per affrontare l’inverno. Un po’ come fanno gli orsi, avevo sistemato la tana e fatto provviste. Poi mi ero messa ai blocchi di partenza pronta per il colpo di reni iniziale.
E invece mi atterra una brutta tracheite. Ho cercato di tenere duro per qualche giorno, ma poi non ho potuto negare l’evidenza. La rinite durava da troppo tempo, la mia voce aveva il timbro di un fumatore incallito ed era ridotta a un rantolo da moribondo.
Nello studio del medico di famiglia cerco di trattare al ribasso i giorni di malattia, ma lui non si concede al contraddittorio ed emette perentorio la sua lapidaria sentenza: antibiotico e riposo per non meno di una settimana.
Così mi trovo abbattuta ai blocchi di partenza e mentre ancora sto testando lo slancio della ripresa mi arriva inaspettato lo sgambetto. Colpita e affondata.
Mentre torno a casa dallo studio del medico cadono le prime gocce di pioggia di un autunno appena sbocciato e io penso a tutte le cose che devo ancora gestire, a come fare per mantenermi al passo.
Invece mi si appiccica una stanchezza insidiosa e incoercibile. Forse è l’antibiotico, forse sono solo priva di energie. I primi due giorni, non faccio altro che ciondolare dal letto al divano, mi assopisco di continuo. Sogno di appuntamenti mancati e di programmi saltati in aria.
Il terzo giorno, nonostante la mia voce non dia ancora notizie di sé, sto un po’ meglio. Fuori dalla finestra una moltitudine operosa – madri che portano i figli a scuola strattonandoli per il braccio, uomini in giacca e cravatta che inforcano grandi suv avveniristici, ragazzini che portano a spasso enormi zaini come gusci di tartaruga – si affanna dietro ai propri impegni. E improvvisamente realizzo che sono contenta di non far parte di quel formicaio brulicante, preferisco, per una volta, limitarmi a guardarlo da un osservatorio privilegiato e neutrale.
Mi rendo conto che, come al solito ero partita in quarta, avevo inzuppato l’agenda di troppi impegni, senza pensare a ritagliarmi degli spazi e prendere fiato, senza inserire in programma del tempo per me. E allora ci ha pensato lui, il mio organismo a tirarmi per la giacchetta, lanciando dapprima qualche pacato monito e intervenendo infine a gamba tesa.
Che non tutte le cose accadono per caso, alcune arrivano quando pensi che sia il momento sbagliato e invece cadono a fagiolo. Ti rendi conto che vengono a portarci un messaggio, ci dicono di rallentare il passo e tirare il fiato. Che la vita non è una corsa agli ostacoli, ma una pietanza prelibata di cui bisogna gustare il sapore.
A quel punto smetto di pensare alla valanga di arretrato che mi accoglierà al rientro al lavoro e alla pila di vestiti da stirare che langue sullo stendino. Mi arrendo, smetto di divincolarmi come un uccelletto in gabbia e mi infilo di buon grado in questa parentesi tonda.
Mi faccio un the e mi siedo in soggiorno con un libro. C’è una bella luce la mattina a casa mia. Un’atmosfera accogliente e rilassata. Il sole si posa sui mobili e rende tutto più caldo. E io me ne sto lì, accomodata sui puntini di sospensione a pensare che il silenzio ha un suono bellissimo.
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