Dondolina è uscita dalla sua comfort zone. Il destino ha bussato alla sua porta una mattina di marzo, per mezzo di un messaggio piovuto sul suo telefonino in modo del tutto inaspettato.
E lei gli ha aperto, perchè sebbene sia una fifona, è anche una che va a vedere. Infatti è fermamente convinta che alle opportunità non bisogna sottrarsi e che il destino sia un’entità capricciosa e imprevedibile, che passa a trovarci quando siamo impreparati a riceverlo, mentre siamo in dasabillè e con i bigodini tra i capelli, ma che, se non gli diamo udienza, difficilmente ritornerà con la medesima proposta. Forse perchè sa che, pronti ad accoglierlo, non ci sentiamo mai per davvero.
Così lo ha fatto accomodare e ha ascoltato attentamente quello che aveva da dirle. Poi, però, gli ha chiesto di aspettare un attimo.
Perchè lei non prende mai alcuna decisione alla leggera, e, come dice il (sopran)nome, tende ad oscillare sulle varie possibilità, tra la paura di dover fare in conti con i rimorsi e quella di dover affrontare i rimpianti. Ma nel profondo del suo animo ha sempre saputo che avrebbe affrontato il cambiamento e colto l’opportunità. Perchè di quello si trattava.
Così Dondolina ha deciso di cambiare lavoro. E, sebbene l’autostima non sia il suo cavallo di battaglia, si è anche permessa di pensare che, se quella proposta è arrivata, non è stato solo merito del fato, che pur ci ha messo lo zampino, ma è stato anche frutto del suo impegno e delle sue capacità.
Adesso è pacificata con la sua scelta e elettrizzata per la novità che incombe. Eppure avendo una natura sentimentale e nostalgica non può fare a meno di guardare indietro, verso gli ultimi 10 anni che ha trascorso al secondo piano di un palazzo moderno alla periferia della città.
E la prima cosa che ha realizzato è che sono stati anni faticosi. Anni in cui la felicità per l’arrivo dei suoi figli è stata appannata dal timore darne l’annuncio ad un capo un po’ antiquato e non sempre comprensivo. Anni fatti di gimcane nel traffico tra asilo, scuola e azienda. Di corse in ufficio con la giacca bagnata dalle lacrime di un bambino depositato riluttante tra le braccia di una maestra d’asilo. Di rientri a casa, dopo lunghe e impegnative giornate di lavoro, a recuperare creature urlanti e bisognose di attenzioni. Di chiamate urgenti al pediatra tra una riunione e un’altra. Di serate in cui crollava stravolta sul divano quando l’orologio non segnava ancora le nove.
Sono però stati anche anni felici. In cui il lavoro l’ha restituita al mondo quando si sentiva reclusa in un limbo fatto solo di pannolini e pappine. In cui il suo mestiere le ha fatto capire che per sentirsi realizzata ha bisogno della sua famiglia, ma anche di una dimensione più vasta, che non sempre la include. Una dimensione che accoglie interessi professionali, ma anche rapporti personali.
E in 10 anni passati nel suo vecchio ufficio di persone ne ha incontrate tante. Alcune sono passate, senza lasciare alcun segno. Altre hanno avuto il grande merito di strapparle una risata, anche nei momenti in cui era meno disponibile all’ilarità. Altre l’hanno fatta arrabbiare, qualcuna tantissimo. Altre ancora hanno passato la soglia della semplice conoscenza e sono diventate confidenti e amiche. Sono quelle che le mancheranno di più.
Sono stati giorni in cui si sono alternate risate e arrabbiature, delusioni e soddisfazioni, interesse e noia. Sole e pioggia.
Per fortuna ci ha pensato lo smart working a mettere un cuscinetto tra sua routine lavorativa di un tempo e quella che l’attende. Servirà a farle sentire meno la nostalgia, anche se forse non riuscirà a scioglierla del tutto.
Ieri è andata in ufficio a lasciare giù il pc e a prendere le sue cose. Si è ricordata del suo vecchio capo brontolone che le rammentava sempre di spegnere la luce prima di uscire. Si è seduta un’ultima volta alla sua scrivania, quella incorniciata dai disegni e dai portafortuna dei suoi bimbi. Ha salutato i pochi colleghi rimasti in ufficio e ha lasciato un cioccolatino sulla scrivania degli altri. Poi ha preso le sue cose dall’armadio: un vecchio codice civile, qualche libro dell’università e gli addobbi natalizi, ma ha lasciato il Babbo Natale con il naso che si illumina al suo compagno di stanza, perchè è una bella persona e perchè gli piaceva tanto.
Infine ha annusato l’aria, l’odore dei suoi ultimi 10 anni di lavoro. Perchè l’odore è la prima cosa che le resta impressa di un luogo. E forse anche l’ultima.
Poi è uscita e ha chiuso la porta, ma prima ha spento la luce.

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