Mio papà ha venduto la sua casa di famiglia, quella in cui è cresciuto da bambino. La dimora si trova in un piccolo borgo di campagna, situato in alta collina, uno di quelli in cui ci devi andare appositamente perchè non intercetta alcuna strada di passaggio. E’ un paese che non conta più di cinquanta abitanti, ma solo d’estate, che fino a pochi anni fa si stava spopolando. Come unica attrazione ha una chiesa con museo dedicato alla seconda guerra mondiale e un ristorante nel quale, pare, si mangino degli antipasti buonissimi.
La verità è che pensava di non riuscire a vendere perchè la casa era piuttosto malconcia e la località amena. E invece poco dopo che l’agenzia immobiliare ha pubblicato l’annuncio, ha ricevuto un’offerta che lui ha subito accettato. Credo temesse che non ne sarebbero arrivate altre.
A me dispiace. In quel paesino trascorrevo un paio di settimane d’estate, quando i miei mi lasciavano dalla nonna paterna. Lei, come tutte le donne del lato femminile della famiglia di mio padre, era una donna alta e secca (io e il mio metro e sessanta abbiamo preso dal lato maschile, ça va sans dire), che cucinava malissimo. Ricordo che sminuzzava una cotoletta cotta alla griglia nei miei spaghetti, pretendendo di farmeli passare per pasta al ragù. Però era di un’agilità inarrivabile per la sua età. Tanto che, già ottantenne, si arrampicava sull’albero di ciliegie e saltava da un ramo all’altro con lo slancio di un gatto (imbranata come sono, anche di questa abilità sono rimasta a bocca asciutta).
Era l’ultima di otto fratelli, tutti molto longevi (speriamo di aver beccato almeno questa). Andavano spesso a trovarla e li ascoltavo comunicare tra di loro in un dialetto strano, a metà strada tra l’inglese e il sardo. Quando si accorgevano della mia presenza, mi rivolgevano sempre il medesimo saluto: “ta che, ta che, a fioa du Giani, c’ma stoti bein?” togliendomi il disturbo di rispondere.
Se chiudo gli occhi e penso a quei giorni, mi tornano in mente soprattutto gli odori: quello del latte appena munto, delle stalle e dei gatti randagi che entravano e uscivano da casa di mia nonna. Era una vita molto più libera di quella che conducevo il resto dell’anno. Stavo fuori casa tutto il giorno a giocare con gli altri bambini, tra la pineta, il cimitero, i prati, le cascine abbandonate e la chiesa. Catturavamo lucertole di giorno e falene la notte.
Fatto sta che l’altro giorno siamo andati a svuotare casa. Abbiamo conservato qualche mobile come ricordo, un grande tavolo di noce e una vecchia credenza che vorrei restaurare e ridipingere d’azzurro, mentre il resto lo abbiamo portato al mercatino dell’usato.
Mentre eravamo intenti in queste operazioni, sono arrivati i nuovi proprietari, una coppia che ha più o meno la mia età (giovane, quindi) che mi è piaciuta a pelle.” Questa non sarà la nostra seconda casa” ci tengono a precisare “verremo proprio a vivere qui”. Lasciano la città per trasferirsi in campagna. Ci raccontano che cercano uno stile di vita più sostenibile, la tranquillità dei piccoli borghi, un rapporto più stretto con la natura, un’esistenza più salubre in cui l’accesso al cibo biologico sia a portata di mano. Ristruttureranno la casa portando in luce il sasso e trasformeranno il portico in un laboratorio. Sprizzano entusiasmo da tutti i pori.
Mentre li ascolto parlare mi accorgo che sono contenta che mio papà abbia venduto la casa proprio a loro, perchè questi ragazzi hanno un progetto in testa e la casa dei nonni gli consentirà di realizzarlo o almeno spero. E poi mi piace immaginarli come il simbolo del fatto che forse, anche grazie al Covid e alle nuove forme di lavoro da remoto, si stia tornando ad apprezzare la vita e i ritmi lenti della campagna, che si stia andando pian piano verso il ripopolamento degli spazi rurali e che magari anche il paesino della mia infanzia tornerà a rianimarsi.
E vendere la casa dei nonni non mi dispiace più così tanto. Perchè meglio di un ricordo stantìo, c’è un ricordo che torna a vivere, per il resto c’è una vecchia credenza che ripingerò di azzurro.

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